(Quello che segue è il testo di un breve discorso tenuto durante la giornata di pratica e studio del 21 aprile 2018)
A partire dalla riflessione comune negli incontri del mercoledì, vorrei proporvi alcuni spunti sulla proposta di Stephen Batchelor1 di considerare le Quattro Nobili Verità come quattro compiti:
Comprendere la sofferenza, lasciar andare la reattività , fermarsi e agire (secondo l’Ottuplice Sentiero).
Comprendere
“Now this, monks, is the noble truth of stress: Birth is stressful, aging is stressful, death is stressful; sorrow, lamentation, pain, distress, & despair are stressful; association with the unbeloved is stressful, separation from the loved is stressful, not getting what is wanted is stressful. In short, the five clinging-aggregates are stressful.”2
“Ora o monaci, questa è la nobile verità della sofferenza: Nascere è sofferenza, invecchiare è sofferenza, la morte è sofferenza, il lutto, la lamentazione, il dolore, il disagio e la disperazione sono sofferenza; essere uniti a ciò che non si ama è sofferenza, essere separati da ciò che si ama è sofferenza, non ottenere ciò che vogliamo è sofferenza. In breve, i cinque aggregati dell’attaccamento sono sofferenza”
Comprendere la sofferenza è un compito complesso. Per svolgerlo nel migliore dei modi, dobbiamo imparare a riconoscerla. Un compito che ci richiama subito e in modo diretto alla consapevolezza, attimo per attimo. Per quale motivo è difficile e che ruolo ha la consapevolezza, la base di ogni pratica meditativa?
In breve, esercitare la consapevolezza ci richiede di seguire, con accuratezza e con energia, tutto quello che ci accade e che facciamo: i nostri pensieri, le nostre emozioni, le pieghe insospettabili della nostra esperienza, per riconoscere lì la sofferenza. Questa è consapevolezza al più alto grado. Può davvero diventare una sfida: è semplice, infatti, ammettere che essere tristi, subire un guasto alla macchina, essere lasciati da chi amiamo, doverci scontrare con qualcuno sono tutte manifestazioni della sofferenza. Ma è difficile anche solo iniziare comprendere perché una vincita, un nuovo amore, un sogno che si realizza sono sofferenza. Perché tutti i cinque aggregati dell’attaccamento sono sofferenza, ossia – e questo mi sembra un passaggio fondamentale – ogni aspetto dell’esperienza per cui nutriamo “attaccamento” è, solo per questo motivo, sofferenza.
Cosa vuol dire davvero comprenderlo? Cosa davvero significa “attaccamento”? È una parola che rischiamo di ripetere talmente tanto, da farle perdere ogni significato.
Voglio farvi una domanda: non avete l’impressione che sia così difficile comprendere come la nostra esistenza sia soggetta alla sofferenza, perché siamo tutti naturalmente e inconsapevolmente convinti che se solo avessimo tutti i soldi che vogliamo, trovassimo l’anima gemella, avessimo figli perfetti, felici e che ci amano, non ci ammalassimo, non dovessimo davvero invecchiare e forse neppure morire, allora saremmo davvero felici, qui e ora, in questo mondo? E non avete l’impressione che, a meno di un serio processo di verifica di questa convinzione naturale, e delle sue molte sfumature, questo sia il motivo per cui la prima verità ci susciti una sorta di opposizione tacita e sottile, anche dopo la milionesima volta che la ascoltiamo, anche se ci professiamo assolutamente convinti che sia “vera”?
Ecco, forse ci possiamo avvicinare di un passo a chiarire il significato di “attaccamento”, e tentare di trovarne un sinonimo: essere “attaccati” a qualcosa significa mantenere la dipendenza ad essa. Essere convinti, senza stare lì a questionare troppo, in modo quasi spontaneo, che la felicità è là fuori.
La sfumatura emotiva dell’attaccamento ci permette di capire come mai comprendere la sofferenza è un compito sfuggente: dobbiamo iniziare ad osservare quanto dipendiamo da quello che accade, sia esso piacevole o spiacevole. L’incidente o la vincita da questo punto di vista sono uguali: hanno potere su di noi. Soffrire è dipendere da qualcosa che non possiamo controllare completamente, che per sua natura cambia, o, il che è lo stesso, ci richiede un grande sforzo per mantenersi adeguato a quello che vogliamo. Nella tradizione Zen si dice che dobbiamo volgere la lampada all’interno, ossia iniziare ad illuminare (una parola che contiene una promessa) la nostra dipendenza.
Ed è un punto difficile da scorgere, sfugge di continuo, anzi lo ignoriamo inconsapevolmente – o in altre parole, viviamo nell’ignoranza.
Da ultimo, comprendere la sofferenza non è quindi abbandonarsi ad un cosmico pessimismo sul mondo e la sua indifferenza nei nostri confronti – la natura è quella che è: piacevole-spiacevole o meglio né piacevole né spiacevole – potremmo forse dire vuota dei significati che abitano solo nella nostra mente.
Lasciar andare
Questa dipendenza emotiva, però, non è la nostra unica possibilità. C’è una Via, che tutti, io credo davvero tutti noi, più o meno inconsapevolmente abbiamo incrociato. Una Via, ossia una possibilità, che conosciamo ma di cui ci fidiamo poco. Perché sappiamo che se iniziassimo a lasciar andare questa dipendenza, staremmo sulla strada della soluzione, ma in un certo senso “saremmo meno”. Lasciar andare significa lavorare sulla reattività, ossia sulla risposta automatica che afferra o allontana: questo significa dipendenza. Ma se smettiamo di reagire, siamo (inconsapevolmente) convinti che in qualche modo soccomberemo alle circostanze.
Ecco come si manifesta la “sete”, cioè la nostra abituale reattività alla nostra esperienza: sete di ottenere, sete di essere, sete di non essere.
Ma se riusciamo a tacitare, esercitandoci con diligenza, questa reazione immediata, allora avviene qualcosa di importante.
Fermarsi
Ci fermiamo. Lo voglio ripetere, ci fermiamo.
Fermiamo gli “impedimenti” cioè tutti i modi in cui questa “sete” ci blocca,o meglio con cui noi ci impediamo di aprirci all’indipendenza del cuore – a quello che c’è dopo che il nostro rincorrere, evitare, stordirci, preoccuparci, dubitare di noi e di quello che stiamo facendo.
Ci fermiamo e gustiamo l’estinguersi di questa sete – sentiamo la libertà dal dover rincorrere quello che è intorno a noi, libertà dal dover essere qualcuno, o dal non dover essere qualcuno. Il corpo è lì, con tutte le sensazioni, i pensieri e la coscienza, ma non c’è più bisogno di legarli assieme.
Io sono intimamente convinto che tutti noi l’abbiamo provato, non solo noi che siamo qui, ma davvero tutti gli esseri umani, in quei momenti di grazia nei quali la lotta cessa, il silenzio rimane, e sfioriamo uno stare sicuri e senza più timori. La pratica è solo, ce lo diciamo sempre, rendere metodico l’accesso a questa “cessazione dell’agitarsi del cuore”.
Agire
Se abbiamo intrapreso la Via, non importa a che punto siamo, diventa ogni passo più chiaro che solo da quella “pace del cuore” possiamo davvero agire, e che è davvero un obiettivo per cui impegnarsi in ogni ambito della nostra vita: pensando, progettando, parlando, lavorando, agendo verso gli altri, sforzandoci di migliorare la nostra percezione della realtà, rimanendo presenti, e imparando a raccoglierci in pace.
Buona pratica!
Grazie
1“Confessione di un ateo buddhista”, Astrolabio Ubaldini, 2011
2https://www.accesstoinsight.org/tipitaka/sn/sn56/sn56.011.than.html