Una storia della dualità: il Paṭiccasamuppāda nella pratica della consapevolezza

wheel200Il Paṭiccasamuppāda è uno degli insegnamenti più difficili che la tradizione filosofica buddhista ci ha tramandato.  Il nome di questo complesso schema psicologico e filosofico può essere tradotto in molti modi: co-produzione condizionata, genesi condizionata, produzione dipendente… Ognuno di queste traduzioni coglie una sfumatura che le tante scuole buddhiste hanno poi sviluppato nei secoli.  Inoltre alcuni  mettono in dubbio che la sua forma attuale, quella che possiamo leggere nei Sutta,  sia direttamente attribuibile al Buddha storico. Certo è che questo insegnamento risente molto del clima culturale in cui si è sviluppato il Dharma, ossia la riflessione filosofica indiana, che attribuisce un grande valore alla coscienza rispetto alla “materia” così come la intendiamo nella tradizione filosofica e scientifica in Occidente.

Che valore ha quindi questo insegnamento? Possiamo tradurlo avvicinandolo a concetti che ci sono più vicini? E come metterlo in pratica?

Il Paṭiccasamuppāda consiste di dodici anelli, che si chiudono in un cerchio. Ciascun anello condiziona il successivo ed è a sua volta condizionato dal precedente, in un ciclo che è virtualmente senza fine. Possiamo leggere questa descrizione come la spiegazione del divenire fenomenico, soggetto alla nascita, alla morte e alla sofferenza. In breve, il Paṭiccasamuppāda spiega il Samsara.

Vorremmo percorrere questo ciclo, proponendovi di interpretarlo come la storia della dualità nella nostra esperienza; in altre parole, come si manifesta la distinzione tra soggetto e oggetto che spezza l’esperienza e ci obbliga a preoccuaprci di controllare quello che accade, distinguendo in quello che vogliamo e quello che non vogliamo.

Il punto iniziale (anche se convenzionale) di questo percorso è l’ignoranza, che condiziona le formazioni mentali, ossia gli atti intenzionali intrinsecamente “aperti a” qualcosa: ogni atto mentale infatti è in relazione  con e a qualche “oggetto”. Ma questo tendere ignorante scambia l’impermanente con il permanente, cerca il bene, potremmo dire, dove questo bene non c’è, semplicemente perché ignora la vera natura delle cose. Così nasce la coscienza, ovvero si manifesta la divisione in soggetto e oggetto (nome e forma). Così la dualità si accresce e si struttura ad ogni passo.

A questo punto “sappiamo” di essere qualcuno in un mondo, e iniziamo a distinguere l’esperienza a seconda dei sensi da cui essa nasce: vista, udito, olfatto, gusto tatto e, per la tradizione filosofica buddhista, la mente-cuore (citta) che è intesa come un senso tra i sensi.

Ora questo processo che è avvenuto automaticamente e nel “passato” rispetto ad ogni esperienza presente, ci offre una via di uscita:  Nel qui e ora possiamo osservare consapevolmente come i sensi condizionano il contatto, cioè siano una condizione necessaria al contatto, come dal contatto nascano le nostre valutazioni (vedana: piacevole, spiacevole e neutro) e come questo produca quasi istantaneamente (ma sottolineiamo questo “quasi”) la brama (trshnatanna i Pali) di esistere. Questa brama o sete, lasciata a se stessa, ossia non osservata, ci porta ad afferrare il piacevole, rifiutare lo spiacevole ed ignorare il neutro. Lasciar passare inosservata la sete ci porterà all’attaccamento, al riconoscerci nelle cose, a renderle parte della nostra storia, della nostra esperienza, a farle diventare un piccolo o grande specchio in cui cercare la nostra immagine riflessa. Dall’attaccamento sorgerà quindi il divenire, da questo la nascita (sia psicologica, ovvero il nostro riconoscerci sempre precario, la costante lotta per essere qualcuno, sia in senso fisico, perché tradizionalmente è qui che si genera il karma, ossi quella forza che ci porta da una vita alla prossima attraverso la rinascita), a cui segue vecchiaia, malattia, pianto e morte, per chiudersi di nuovo sull’ignoranza da cui eravamo partiti.

Torniamo quindi al presente, e all’anello debole di questa catena che ci tiene legati alla sofferenza: il contatto.

Buddhadasa ne Il cuore dell’albero della Bodhi introduce un esercizio di meditazione di consapevolezza (vipassana) molto fruttuoso, quello di dirigere la nostra attenzione nel momento presente in cui si verifica il contatto: quando c’è un contatto uditivo, sensoriale, fisico o mentale come ricordi, aspettative, sogni a occhi aperti… e la lista potrebbe essere infinita quanto la nostra capacità di creare contenuti mentali.

Un esercizio di consapevolezza molto efficace, perché ci fissa sul momento presente dell’oggetto preso in esame, prima che partano le nostre sensazioni-valutazioni, cioè prima di afferrare il piacevole, allontanare lo spiacevole, dimenticare il neutro. Restare con quello che c’è prima di edificare le sovrastrutture mentali come preconcetti, pregiudizi, aspettative, rimpianti. Restare in contatto nel momento presente significa acquisire un numero di informazioni dirette, non meditate dalle nostre inclinazioni. Passare da una forma di intelligenza verbale e concettuale a una esperienziale.

Questa è anche la pratica del lasciare andare o dell’accettare, perché sono la stessa cosa: restando solo sul contatto, lasciamo andare le nostre valutazioni piacevole-spiacevole-neutro che creano attaccamento nocivo e egocentrismo compulsivo; accettiamo quello che c’è così com’è e non come noi vorremmo che fosse.
Contemplazione del Contatto, Lasciare Andare e Accettare sono tre sinonimi della medesima esperienza.

In conclusione, il Paṭiccasamuppāda può essere interpretato come una guida alla osservazione saggia della nostra esperienza, per superare la dualità che produce la sofferenza esistenziale.

 

 

 

 


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